Don Rocca diede pascolo al suo gregge

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Don Rocca.

di Valerio Ricciardelli (8 marzo 2021)


56° anniversario della morte di don Giovanni Battista Rocca (Parroco di Esino Lario dal 1927 al 1965).

“Don Rocca diede pascolo al suo gregge e gli procurò nutrimento spirituale, cibo materiale, direzione di governo. Per 38 anni don Rocca andò spendendo tutte le sue forze, il suo tempo, i mezzi, i talenti che il buon Dio gli ha concessi al bene della sua popolazione”.

In queste poche righe, estratte dall’elogio funebre di don Piero Oriani, che per 22 anni fu il valente collaboratore del Parroco, c’è tutto don Rocca.

Sembrerà strano ma di don Rocca, si è ancora parlato troppo poco e per tanto tempo è prevalso l’oblio, riconducendo il suo ricordo al racconto superficiale e frammentario delle sue opere, facendo emergere più una figura riconducibile a quei preti un po’ ingegnosi che spesso si incontrano nelle parrocchie disagiate dove al ministero sacerdotale associano altre attività incidenti nella vita dei loro parrocchiani.

Non è così per don Rocca, non è stato uno dei tanti e bravi preti solo ingegnosi.

Don Rocca è stato un grande prete della chiesa universale e della chiesa ambrosiana e un grande genio della società di allora, dove la profondità delle idee e le sue intuizioni trovano una formidabile attualità che se ben compresa aiuterebbe a colmare i non pochi vuoti di pensiero e ancora di idee che la società attuale si trascina. Certamente don Rocca non ha avuto l’attenzione di essere sufficientemente conosciuto e studiato per gli alti meriti che ha posseduto e fu spesso ostacolato e combattuto.

Don Rocca ha titolo e dignità di collocarsi vicino a quella categoria di grandi preti che ci sono più familiari come don Mazzolari, don Milani, per citarne alcuni, a quelle figure religiose che tolte dall’incardinamento ufficiale ecclesiastico, hanno lasciato il segno non solo nella loro comunità locale ma di loro si è potuto parlare e se ne può ancora parlare.

Nel suo cammino sacerdotale don Rocca ha capito subito che doveva occuparsi dell’uomo, della comunità in cui vive l’uomo, delle dimensioni sociali che agivano sui comportamenti della vita cristiana e che a loro volta erano condizionati dalle dimensioni economiche della società e delle comunità di quel tempo e dei numerosi conflitti sociali, economici e militari.

Il genio di don Rocca stava proprio nel suo pensiero speculativo, dove comprendeva che il suo gregge, ovunque fosse, non poteva essere alimentato solamente con “cibo spirituale” ma occorreva dare ad esso anche “supporto materiale”.

Ecco perché, giunto in una piccola parrocchia di montagna, dove i preti erano soliti scappare, seppe immediatamente cogliere tutte quelle positività e ricchezze che il buon Dio aveva dato al paese e mettendo a frutto il suo grande ingegno incominciò mettervi mano affrontando tutte le dimensioni dell’economia locale, soprattutto in un ambizioso piano di crescita e di sviluppo.

Ma c’è un passaggio fondamentale, poco noto, antecedente la venuta a Esino di don Rocca, che fa meglio comprendere il suo pensiero e quindi il suo agire.

Fu prima coadiutore a Malgrate dove si occupò del disagio dei contadini lombardi.

Nel 1921 scrisse un libro bianco che ha per titolo “l’agitazione dei contadini milanesi e comaschi”.

Quel libro, assolutamente non noto, è un capolavoro, ricco di intuizioni e di suggerimenti pratici per dirimere una situazione conflittuale che ormai durava da anni tra i contadini e i proprietari della terra e fu la base della riforma agraria del Governo dell’epoca.

Sempre esplorando la genialità speculativa di don Rocca non sfugge la fonte di ispirazione delle sue idee di dottrina sociale che trovano ancoraggio nella famosa enciclica Rerum Novarum,  promulgata da papa Leone XIII .

Tutto il libro di don Rocca si richiama all’enciclica papale.

Lui ha ben chiaro, già dai primi anni del suo ministero sacerdotale, che il “cibo materiale”, al povero, viene prima del “cibo spirituale” e sintetizza il suo agire nell’occuparsi della carità cristiana. Fu precursore delle idee di papa Giovanni XXIII. E questa esemplificazione, che io identifico più come una finezza gesuistica, la troviamo permanentemente, nella vita di don Rocca in tante altre occasioni, quando preso da grandi situazioni, sdrammatizza dicendo: in fondo faccio il prete e mi devo occupare solo di carità cristiana. E questa frase la usa anche nel momento più impegnativo della sua esistenza, quando di fronte al plotone di esecuzione, nella sua veste di partigiano confesso, cerca di salvarsi la pelle dicendo che aveva salvato le vite di molti fascisti e mostrando la lettera di ringraziamento della segreteria del duce, per aver nascosto a Esino la nuora di Mussolini, Orsola Buvoli, moglie di Vittorio, con i figli Guido e Adria. Aggiunge agli aguzzini: ma perché mi volete fucilare, in fondo il mio mestiere è di occuparmi di carità cristiana.

E’ incredibile come coordinatore dei partigiani, salvò la vita alla nuora e ai nipoti del Duce che potevano essere invece facili ostaggi da utilizzare, forse cambiando il corso della storia.

Ne scrisse anche al Cardinal Schuster, dicendo che in fin dei conti si era trattato di fare della carità cristiana.

Questa continua capacità di guardare oltre i brevi orizzonti di quei pur tragici momenti, conferma la pastorale della carità di quest’umile e grande prete, dove ogni gesto, pur richiesto di coraggio, decisione e sacrificio, nel segreto della sua coscienza è sempre stato un atto di solidarietà e di carità verso i fratelli sofferenti. E ciò avvenne anche dopo il 25 aprile del ‘45, dove non esitò ad aiutare “gli altri”, i nuovi ricercati, i perseguitati, i braccati, e salvò la vita anche a costoro.

Don Rocca consolidò e applicò la sua dottrina sociale della chiesa da fine intellettuale; sapeva trarre ispirazione da tutti i grandi pensatori, e a lui non sfuggivano le pietre miliari della sapienza e della conoscenza dell’epoca a cui attingeva costantemente il sapere che poi riusciva a rielaborare con arte speculativa per usarlo nelle opere per la sua gente.

Sapeva indirizzare bene verso le giuste fonti di ispirazioni anche coloro che dovevano operare con lui per il bene della sua comunità.

E a tal proposito,  quando Miche Vedani dovette accingersi alla realizzazione della Via Crucis e chiese a don Rocca dove poter trarre ispirazione per realizzare l’opera, le mani dello scultore furono sicuramente guidate dall’emozione per adempiere il desiderio della figlia scomparsa, ma ben indirizzate da don Rocca che indicò all’artista di ispirarsi, per la realizzazione del grande Atto, nel libro della vita di N.S. Gesù Cristo dell’abate Costantino Fouard che era il miglior libro dell’epoca sulla vita di Cristo. Pensate che Vedani lo lesse addirittura due volte, e a ragione don Rocca sottolineò che fu in grado di coglierne “il senso più composto del bello”.

Anche in quest’occasione, don Rocca, intervenne con criterio facendo prevalere la sua dimensione sacerdotale. Non era sufficiente soddisfare il lato estetico per gli appassionati d’arte; il luogo e il desiderio del Parroco vollero che fosse tenuto conto della dimensione trascendentale nell’opera, per guidare il turista credente a rivivere, con fede e nell’arte, la Passione del Cristo.

Oggi il viale della Croce che conduce alla parrocchia è dedicato a don Rocca.

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